Il pulmino sobbalza da ore sul lungo nastro d’asfalto sconnesso. Il panorama è sempre lo stesso e ha ormai perso d’interesse: deserto e ancora deserto, terra brulla costellata d’arbusti; ogni tanto un gruppo di case costruite di fango cinte da un muro per proteggerle dal vento e dalla sabbia, qualche capra che bruca i pochi germogli verdi di cespugli quasi completamente secchi, bambini che giocano per terra la cui attenzione è subito attratta dal passaggio del nostro veicolo.
Facciamo qualche sosta e i bambini si avvicinano di corsa arrestandosi però ad una diecina di metri da noi: sono attratti dalla novità di vederci ma allo stesso tempo non hanno il coraggio di avvicinarsi di più e si limitano a guardarci stringendosi tra loro come ad infondersi coraggio reciproco. Sono così diversi dagli altri bambini incontrati da quando siamo arrivati in India: aggressivi, importuni, assillanti, fastidiosi.
In un paese dove la miseria si vede a qualunque angolo di strada, dove una rupia va contesa ad accattoni, storpi, venditori ambulanti, la lotta è aspra ed è basata sulla resistenza, lo scopo è portare all’esasperazione il turista con continue richieste di soldi fino al cedimento. Ma quella che sembra la scelta risolutiva, la distribuzione di qualche rupia, si dimostra ben presto veramente controproducente perché la piccola corte di persone, motivata dalla visione dei soldi si scatena in rinnovate e più insistenti richieste, ed il gruppo d’inseguitori di solito è infoltito da altri che intravedono la possibilità di avere a loro volta qualche banconota.
I bambini che incontriamo in questi piccoli villaggi del deserto invece si limitano a guardarci rapiti. Per loro siamo un diversivo dai loro semplici giochi, alcune volte parlottano tra loro e scappano via ridendo, ma mai ci fanno una qualunque richiesta.
Adulti non se ne vedono. Le donne nelle piccole abitazioni cucinano cibi per il pranzo, gli uomini sono probabilmente impegnati con gli animali al pascolo.
Dopo diverse ore di viaggio si perde interesse sia per il deserto sia per i villaggi, non si può affermare che ci si annoi, piuttosto si scivola in uno stato di tranquilla attesa, le immagini scorrono davanti agli occhi, ma la mente è già sintonizzata sulla meta finale di quel lungo viaggio...
Jaisalmer appare all’improvviso all’orizzonte, bellissima, ergendosi dalla sabbia in tutto il suo splendore di mura, rocche, guglie e torri colore dell’oro; immutata nei secoli, la vediamo venirci incontro lentamente illuminata dai raggi del sole al tramonto.
Mentre ci avviciniamo la luce diminuisce d’intensità e il colore assume una tonalità più calda per poi variare lentamente verso un rosa pallido.
Non possiamo fare a meno di immaginare le carovane di dromedari che, nel passato, percorrendo la via della seta dirette in Cina, dovevano aver avuto la nostra stessa visione.
La sua posizione nel deserto del Thar al confine col Pakistan e la perdita d’importanza della via della seta ne hanno mantenuto inalterato l’aspetto; è rimasta uguale a centinaia d’anni fa, adagiata su una collina di sabbia con le mura che la cingono e le guglie dei tre templi Jainisti che svettano al di sopra. Solo avvicinandosi ci si accorge dei quartieri nuovi costruiti alle pendici della collina, l’interno è rimasto inalterato, in alcuni casi degradato dallo stato d’abbandono in cui giacciono molti edifici.
La visione di questa città ti colpisce fin dal primo momento in cui ti appare distante chilometri nel deserto, ma il suo fascino si esplica in tutta la sua grandezza solo quando si passeggia per le sue vie osservando le haveli, palazzi costruiti in arenaria, finemente scolpiti con motivi floreali e religiosi, balconcini e finestre a sbalzo e all’interno portici delimitati da colonne di marmo.
Uscendo dalla città e seguendo una strada polverosa, dopo aver superato una grande porta a volta, d’improvviso ti appare un piccolo specchio d’acqua, ed è la visione che meno ti aspetti in quel paesaggio di sabbia; il contrasto delle placide acque azzurre con il giallo della riva e l’ocra degli edifici è reso ancora più incantevole dai colori rosa, fucsia, violetti, dei sari di alcune donne che fanno ritorno verso la città portando, in bilico sulla testa, dei grandi piatti pieni di fango.
In un paesaggio affascinante, ma caratterizzato dalla scarsa varietà dei colori un altro luogo che ti colpisce è il giardino del Maraja; situato poco fuori città e circondato da un muro di recinzione, con il verde intenso dell’erbetta e degli alberi sembra darti refrigerio dalla calura del deserto.
Passeggiando puoi immaginarti il sovrano che sedeva sul trono di pietra, contornato dalla sua corte e dai musici che suonavano gli antichi strumenti indiani e, per un momento, ti sembra di sentire il suono lieve degli archi.
Il giardino è ancora ben curato anche se non si capisce chi lo utilizzi oggi, in giro non si vede nessuno, forse è un luogo di ricordi di un passato ormai tramontato definitivamente. I Maraja dopo l’indipendenza dell’India hanno perso il potere politico e anche dal punto di vista economico, soprattutto nei piccoli regni non hanno più quei mezzi che permettevano di mantenere un tenore di vita molto alto. Infatti, in alcuni casi, questi principi sono diventati albergatori, trasformando una parte dei loro favolosi palazzi in alberghi per turisti occidentali assetati di atmosfere da grandi corti orientali.
L’impressione che si ha dopo aver passato alcuni giorni a Jaisalmer è di una città dal gran passato ormai lontano, ma dal futuro ormai segnato: l’abbandono evidente e inesorabile non lascia nessuna speranza. Il suo fascino rimane, però, inalterato e, forse, addirittura accresciuto da questo stato di fatto.
Facciamo qualche sosta e i bambini si avvicinano di corsa arrestandosi però ad una diecina di metri da noi: sono attratti dalla novità di vederci ma allo stesso tempo non hanno il coraggio di avvicinarsi di più e si limitano a guardarci stringendosi tra loro come ad infondersi coraggio reciproco. Sono così diversi dagli altri bambini incontrati da quando siamo arrivati in India: aggressivi, importuni, assillanti, fastidiosi.
In un paese dove la miseria si vede a qualunque angolo di strada, dove una rupia va contesa ad accattoni, storpi, venditori ambulanti, la lotta è aspra ed è basata sulla resistenza, lo scopo è portare all’esasperazione il turista con continue richieste di soldi fino al cedimento. Ma quella che sembra la scelta risolutiva, la distribuzione di qualche rupia, si dimostra ben presto veramente controproducente perché la piccola corte di persone, motivata dalla visione dei soldi si scatena in rinnovate e più insistenti richieste, ed il gruppo d’inseguitori di solito è infoltito da altri che intravedono la possibilità di avere a loro volta qualche banconota.
I bambini che incontriamo in questi piccoli villaggi del deserto invece si limitano a guardarci rapiti. Per loro siamo un diversivo dai loro semplici giochi, alcune volte parlottano tra loro e scappano via ridendo, ma mai ci fanno una qualunque richiesta.
Adulti non se ne vedono. Le donne nelle piccole abitazioni cucinano cibi per il pranzo, gli uomini sono probabilmente impegnati con gli animali al pascolo.
Dopo diverse ore di viaggio si perde interesse sia per il deserto sia per i villaggi, non si può affermare che ci si annoi, piuttosto si scivola in uno stato di tranquilla attesa, le immagini scorrono davanti agli occhi, ma la mente è già sintonizzata sulla meta finale di quel lungo viaggio...
Jaisalmer appare all’improvviso all’orizzonte, bellissima, ergendosi dalla sabbia in tutto il suo splendore di mura, rocche, guglie e torri colore dell’oro; immutata nei secoli, la vediamo venirci incontro lentamente illuminata dai raggi del sole al tramonto.
Mentre ci avviciniamo la luce diminuisce d’intensità e il colore assume una tonalità più calda per poi variare lentamente verso un rosa pallido.
Non possiamo fare a meno di immaginare le carovane di dromedari che, nel passato, percorrendo la via della seta dirette in Cina, dovevano aver avuto la nostra stessa visione.
La sua posizione nel deserto del Thar al confine col Pakistan e la perdita d’importanza della via della seta ne hanno mantenuto inalterato l’aspetto; è rimasta uguale a centinaia d’anni fa, adagiata su una collina di sabbia con le mura che la cingono e le guglie dei tre templi Jainisti che svettano al di sopra. Solo avvicinandosi ci si accorge dei quartieri nuovi costruiti alle pendici della collina, l’interno è rimasto inalterato, in alcuni casi degradato dallo stato d’abbandono in cui giacciono molti edifici.
La visione di questa città ti colpisce fin dal primo momento in cui ti appare distante chilometri nel deserto, ma il suo fascino si esplica in tutta la sua grandezza solo quando si passeggia per le sue vie osservando le haveli, palazzi costruiti in arenaria, finemente scolpiti con motivi floreali e religiosi, balconcini e finestre a sbalzo e all’interno portici delimitati da colonne di marmo.
Uscendo dalla città e seguendo una strada polverosa, dopo aver superato una grande porta a volta, d’improvviso ti appare un piccolo specchio d’acqua, ed è la visione che meno ti aspetti in quel paesaggio di sabbia; il contrasto delle placide acque azzurre con il giallo della riva e l’ocra degli edifici è reso ancora più incantevole dai colori rosa, fucsia, violetti, dei sari di alcune donne che fanno ritorno verso la città portando, in bilico sulla testa, dei grandi piatti pieni di fango.
In un paesaggio affascinante, ma caratterizzato dalla scarsa varietà dei colori un altro luogo che ti colpisce è il giardino del Maraja; situato poco fuori città e circondato da un muro di recinzione, con il verde intenso dell’erbetta e degli alberi sembra darti refrigerio dalla calura del deserto.
Passeggiando puoi immaginarti il sovrano che sedeva sul trono di pietra, contornato dalla sua corte e dai musici che suonavano gli antichi strumenti indiani e, per un momento, ti sembra di sentire il suono lieve degli archi.
Il giardino è ancora ben curato anche se non si capisce chi lo utilizzi oggi, in giro non si vede nessuno, forse è un luogo di ricordi di un passato ormai tramontato definitivamente. I Maraja dopo l’indipendenza dell’India hanno perso il potere politico e anche dal punto di vista economico, soprattutto nei piccoli regni non hanno più quei mezzi che permettevano di mantenere un tenore di vita molto alto. Infatti, in alcuni casi, questi principi sono diventati albergatori, trasformando una parte dei loro favolosi palazzi in alberghi per turisti occidentali assetati di atmosfere da grandi corti orientali.
L’impressione che si ha dopo aver passato alcuni giorni a Jaisalmer è di una città dal gran passato ormai lontano, ma dal futuro ormai segnato: l’abbandono evidente e inesorabile non lascia nessuna speranza. Il suo fascino rimane, però, inalterato e, forse, addirittura accresciuto da questo stato di fatto.